Israel Nash: Topaz (Loose)

Ci sono frammenti di blues, country-folk e soul nella musica di Israel Nash Gripka, ragazzo del Missouri trapiantato per un certo periodo a New York (tra le sue prime collaborazioni, spicca quella con l’ex Sonic Youth Steve Shelley, produttore di Barn Doors And Concrete Floors).

Si avverte – non sarò il primo a scriverlo – l’influenza di Neil Young nella sua voce, al servizio di un songwriting che in Topaz, settimo album a suo nome (incluso il Live at Mr. Frits del 2011), risulta pienamente maturo.

Disco ambizioso quanto ispirato, registrato quasi tutto in presa diretta in un ranch nei pressi di Austin (lo studio Plum Creek Sound del musicista) con un ensemble che comprende Josh Fleischmann alla batteria, i fiati degli Hard Proof (supergruppo con membri di The Echocentrics, Cougar, The Calm Blue Sea, Black Joe Lewis and the Honeybears), Scott Davis al basso, Sam Powell alle tastiere, le chitarre di Eric Swanson e Adrian Quesada (Black Pumas). Il sound, molto anni ’70, replica un modo di concepire l’intero progetto di un disco che oggi – mutato di molte spanne il modo di fruire la musica – si vorrebbe erroneamente fuori dal tempo. A Israel Nash non importa: mette sul piatto 10 canzoni che sembrano già classici imbevuti di southern e fragranze psichedeliche (modello West Coast); ballate dalle fluide armonie vocali che hanno il respiro di un racconto di strade solitarie e perdute da percorrere da soli, nell’agrodolce linea d’ombra del divenire adulti. “Runnin’ in and out of luck / Am I movin’ up or gettin’ stuck?”, canta il nostro in Closer.

Chiudi gli occhi e senti odore di segale fresca, polvere del deserto, tabacco e benzina, versi di cornacchie appollaiate tra i rami di un gelso.  Se state pensando ai Creedence Clearwater Revival, non sarò io ad alzare la mano in segno di protesta. Idem se alle volte dovessero venirvi in mente i nomi di David Crosby, Gene Clark, John Fogerty e Robbie Robertson o, poniamo, il titolo di un capolavoro di Neil Young come On the Beach. Il respiro è quello del Grande Romanzo Americano che si svolge in un paesaggio al tramonto con motel a ferro di cavallo che spuntano in mezzo al nulla, Chevrolet Silverado inzaccherate, bottiglie di Shiner Bock e autostoppiste dalle gambe da giraffa dentro stivali da cowboy.

Banjo, armonica, organo Hammond,  pedal steel guitar: ci sono brani come Canyonheart; Sutherland Springs (ispirata dalla cronaca di una strage a colpi d’arma da fuoco in una chiesa battista del Texas) o Stay che fanno gridare al miracolo per l’incredibile pulizia degli arrangiamenti e la presa al primo ascolto. Stilisticamente, Topaz segna un cambio di rotta rispetto agli esordi più scarni e alle non sempre felici manovre pop di Silver Season (2015); di sicuro il tentativo di imboccare una direzione che potrebbe portare a Nash una visibilità meritatamente più ampia.

Inchino doveroso al cantautore venuto dai monti Ozark.

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