Amerigo Verardi: Un sogno di Maila (The Prisoner Records)

È pieno inverno, la luce che si spande sulla città in cui vivo è grigia e tira freddo, la signora in fila davanti a me alla cassa del supermercato sta dicendo alla commessa che la sua bambina è quasi riuscita a rompersi un braccio mentre saltava in casa dalla poltrona al divano in salotto: «Adulti nervosi, figli nervosi», sospira.

Ho bisogno di sole, penso. Da quanto non vado a fare una passeggiata al parco? Ho letto che le temperature dovrebbero precipitare ancora.

Due passi, l’ultima sigaretta del pacchetto. Ho bisogno che arrivi presto la primavera. E giornate più lunghe, con l’aria che profuma di fiori.

Poi c’è questo disco, il nuovo album di Amerigo Verardi che arriva a cinque anni dal precedente Hippie Dixit. Ha una bella confezione a forma di libro e fa parte di quella categoria che io chiamo “romanzi musicali” (ad esempio The Wall dei Pink Floyd o Tommy degli Who sono per me romanzi con musica e parole).

È un lavoro lungo 77 minuti che sfida le regole correnti della fruizione intanto perché si presenta come un’unica traccia, un blocco all’interno del quale sono racchiusi i 20 episodi che hanno come protagonista la misteriosa ragazza del titolo. Sfida spudoratamente l’usa e getta di questo nostro tempo che quasi nulla concede (nella musica come nel consumo di libri o film) a quella che ancora oggi dovrebbe essere la prima richiesta di un’opera ai suoi destinatari: “Prestami attenzione. Trova tu il tempo che ti serve, mettiti comodo, togli le scarpe e spegni il cellulare ma – per favore – non lasciare che io scorra in sottofondo”.

Il tempo e il modo si trovano, basta volerlo. L’idea di dover confinare la cultura alla sfera del tempo libero è un equivoco grossolano, una colossale idiozia che ha già (pardon my french) fottuto molti. Cosa significa di preciso “tempo libero”? Penso che possa andar bene per la palestra una-due volte la settimana, o per una gita fuori porta, un paio di birre al pub con gli amici, lo struscio domenicale per le vie del centro.

L’incontro con una creazione artistica è qualcosa di differente: voglio, desidero che la mia vita sia piena di bellezza, della luce intensa che lavori come Un sogno di Maila sono in grado di emanare, di infondere ad ogni passaggio. Bramo che mi sorprendano, che ce la facciano a proiettarmi altrove (in un posto con tanto sole e profumo di limoni, violette e gelsomini) e, sì, che mi aiutino ad aprire tutte le porte, le botole, i cassetti ancora chiusi nella mia testa.

Ho bisogno di perdermi come in un labirinto incantato, un mandala, accogliendo con tutti i sensi suoni, segni, visioni. Folk psichedelico e un soffio della stagione sperimentale di Claudio Rocchi, del primo Alan Sorrenti aiutato da Jean-Luc Ponty. Ancora, e ancora, e ancora. Un tuffo tra le onde più grosse, nella fitta schiuma di colori e tessiture in cui Syd Barrett sembra impegnato in una jam con il Battiato periodo Fetus e Pollution.

Voglio l’intimità con l’universo, con la fatica e il sogno di chi ha scritto, suonato, interpretato e diretto questa cosa. Non è una faccenda riconducibile al “tempo libero”, capite bene. È l’esperienza dello stupore infantile che si protrae senza ricatti nell’età adulta. È quanto ci aiuta a muoverci, a sentire, a pensare, perfino a sconfinare da fermi in luoghi speciali dopo aver schiacciato il tasto play e chiuso gli occhi. “Still swooning vivid through my globed brain”, come diceva John Keats.

Non è la veglia, è il sogno.

Qui l’intervista completa ad Americo Verardi.

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